“Facebook è gratis e lo sarà sempre”: la rassicurante scritta che campeggiava sui messaggi di benvenuto del social più famoso del mondo è scomparsa. Non si tratta di un caso, ma è il risultato di un iter giudiziario conclusosi con una sentenza del Consiglio di Stato che lascia ancora aperte numerose questioni.
La sentenza del Consiglio di Stato ai danni di Facebook mette fine ad una vicenda giudiziaria durata tre anni e sancisce definitivamente la colpevolezza di Facebook.
Il social network di Mark Zuckerberg è reo di aver condotto per anni una politica ingannevole che si basava sulla falsa promessa di fornire servizi gratuiti. In questo articolo, ripercorriamo la vicenda, valutando le implicazioni di questa condanna.
La vicenda
Nel 2018, Facebook ha ricevuto due sanzioni amministrative per pratiche commerciali ingannevoli e per pratiche commerciali aggressive, da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
La questione aveva preso il via proprio dal messaggio di benvenuto “Facebook è gratis e lo sarà sempre” visibile agli utenti al momento dell’iscrizione e diventato ormai un vero e proprio slogan del social network. Le sanzioni ammontavano a 5 milioni di euro ciascuna e all’obbligo di pubblicare un messaggio rettificatore.
La motivazione era la seguente:
– Facebook non informava con immediatezza e chiarezza riguardo alla sua pratica di raccogliere e sfruttare a fini commerciali i dati personali inseriti dagli utenti per poter accedere alla piattaforma;
– Il fatto che le finalità commerciali e quelle sociali e culturali non fossero sufficientemente e chiaramente distinte costituiva un’aggravante del comportamento ingannevole.
Facebook, dal canto suo, era ricorso al TAR, ipotizzando la non competenza dell’Antitrust a giudicare della materia e affermando che gli utenti potevano “deselezionare” in qualunque momento la messa a disposizione dei loro dati personali per tutelarsi.
Il TAR accoglieva parzialmente il ricorso e annullava uno dei due provvedimenti sanzionatori, ovvero quello relativo alla pratica aggressiva. La pratica ingannevole veniva invece confermata.
La sentenza del TAR è stata successivamente impugnata sia da Facebook che dall’Antitrust. Ciò ha condotto alla sentenza del Consiglio di Stato.
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La decisione
Il Consiglio di Stato è giunto il 29 marzo 2021, alla sentenza n. 2361, che ha riconosciuto come i dati personali, di per sé non commercializzabili, abbiano però subito una patrimonializzazione da parte di Facebook. La patrimonializzazione è avvenuta all’insaputa degli utenti, ai quali veniva assicurato che si sarebbero iscritti gratuitamente alla piattaforma, mentre i loro dati venivano utilizzati per effettuare una profilazione a fini commerciali, ossia erano sfruttati a fini commerciali.
Il Consiglio di Stato ha dunque escluso le pratiche commerciali aggressive, ma ha confermato l’ingannevolezza della pratica commerciale di Facebook, poiché era stato dato ad intendere per anni che i servizi offerti fossero gratuiti.
L’argomentazione che fa riferimento alla possibilità di deselezionare la messa a disposizione dei propri dati personali è stata ritenuta non valida. “Deselezionando”, infatti, l’utente avrebbe perso il servizio stesso ed era quindi indotto a fornire i propri dati personali per iscriversi a Facebook, senza essere stato compiutamente informato sul fatto che i dati in questione sarebbero stati utilizzati come strumento di profilazione a fini commerciali.
Al contrario, nella sua comunicazione, Facebook avvisava piuttosto l’utente di tutti gli svantaggi che gli sarebbero derivati dal non mettere a disposizione i propri dati personali. Ciò costituisce una pratica commerciale ingannevole, dal momento che il consumatore ha diritto ad un’informazione chiara e completa fin dal primo contatto con il fornitore dei servizi.
“Se Facebook è gratis, il prodotto sei tu”
La sentenza del Consiglio di Stato è molto importante: essa ha confermato come gli utenti siano stati indotti ad accedere a Facebook per ottenere dei vantaggi promessi come gratuiti, ma che, in effetti, sono stati pagati attraverso la profilazione dei dati personali. Più grave è che Facebook abbia fatto di questa falsa gratuità uno slogan.
Questa sentenza costituisce un importante spartiacque e ha delle conseguenze che vanno al di là del caso singolo. Molte sono infatti le questioni che restano aperte riguardo al tema delicato della commerciabilità dei dati e la sentenza del Consiglio di Stato ha soprattutto il grosso merito di aver riacceso i riflettori su un problema da tempo esistente e che continua a persistere.
Facebook non è che un caso nella miriade di social network e piattaforme oggi esistenti in Rete che fanno della raccolta dati dei loro utenti la loro principale fonte di guadagno.
I dati personali sono il motore della cosiddetta economia digitale e vengono raccolti per essere rivenduti a peso d’oro, senza che nessuno di noi ne sia davvero consapevole. Essi possono riguardare ogni aspetto della nostra vita (gusti sessuali, preferenze politiche, appartenenze religiose, particolari sulla vita famigliare) e vengono trattati e rielaborati in veri e propri profili comportamentali utili ad essere sfruttati commercialmente.
Lasciare tracce sui social network è inevitabile e fa parte dell’essenza stessa dei social; il problema sorge però quando queste tracce vengono raccolte e rielaborate per essere vendute a fini commerciali senza che ne veniamo informati. Si tratta di una prassi ormai consolidata che mette in serio pericolo le libertà e diritti degli utenti, in quanto totalmente ignari di quanto avviene con le informazioni che condividono in Rete.
Come tutelarsi?
Il modo migliore per tutelarsi è innanzitutto limitare il più possibile le informazioni che cediamo alle piattaforme, facendo attenzione a quale tipo di consenso diamo al momento dell’accesso. Ove possibile, una mossa importante è deselezionare tutti i consensi, di norma nascosti (ovviamente), di fianco al grosso e scintillante pulsante che vi invita ad “accettare tutto”. Spesso è un pulasante spento, grigio e sinistro, che non fa venir voglia di essere cliccato, che si apre alla visita di ogni nuovo sito web. Massima attenzione al passaggio da una piattaforma all’altra (o da un social ad un sito web): molto intrusivo potrebbe essere lo scambio di informazioni tra il sito di provenienza e quello di destinazione.
Se la piattaforma non da questa possibilità o vi mostra i consensi già prefleggati, questa non solo potrebbe molto probabilmente non rispettare la normativa, ma di sicuro non rispetta i vostri diritti e le vostre libertà. Meglio mantenersi alla larga, il web è ricco di altre opportunità!
Inoltre, è bene ricorrere alla consulenza di un avvocato informatico esperto, ogni qualvolta si sia in dubbio o si voglia esercitare i diritti che la legge consente. Ciò è vero soprattutto se i soggetti coinvolti nella messa a disposizione inconsapevole di dati sono minori.
PROSPETTIVE FUTURE
Va detto in conclusione che qualcosa sta cominciando a smuoversi anche a livello internazionale, grazie alle grandi manifestazioni e pressioni (anche di noi giuristi) che hanno ad oggetto i diritti degli utenti e la protezione dei loro dati personali: alcuni giganti dell’informatica, come Apple, vorrebbero prevedere nei loro sistemi la possibilità per gli utenti di decidere se mettere o no a disposizione di Facebook e simili i propri dati personali.
L’annuncio ha mandato su tutte le furie Mark Zuckerberg che ha minacciato di rendere a pagamento Facebook per questi utenti. Al di là del fatto in sé, è importante sottolineare come sia fondamentale che l’utente abbia almeno questa opzione di scelta e possa decidere autonomamente se pagare il servizio in moneta o per mezzo dei suoi dati personali.